Potrei iniziare questa recensione in diversi modi, per esempio: “è un libro meraviglioso sotto ogni punto di vista e io sono una molto parca nei complimenti ai libri”.
Oppure: “a volte mi pento di essere una snob che si rifiuta di leggere un libro un po’ mainstream come Gli amici silenziosi. Questa è una di quelle volte”.
Altrimenti: “leggetelo, piangete e sussultate con me, vi prego!”
Dopo essermi perdutamente innamorata di Il filo avvelenato, uno di quei romanzi dal sapore classico e intramontabile, e della perfezione stilistica nel dar voce a due protagoniste molto diverse quali Ruth e Dorothea da parte dell’autrice Laura Purcell, devo assolutamente recuperare la sua opera precedente e rivedere un pochino i miei gusti in fatto di lettura. In effetti, funziona anche col cibo: crescendo, si cambiano gusti.
Il filo avvelenato edito Oscar Mondadori è un romanzo gotico con tutti i crismi, con qualche somiglianza con Alias Grace di Margaret Atwood salvo poi una struttura completamente diversa e un andamento più da thriller. La trama si svolge interamente nel Regno Unito di età vittoriana, fra la splendida casa della famiglia Truelove e la Oakgate Prison, dove si incontrano le protagoniste, Dorothea Truelove e Ruth Butterham.
Da queste due semplici informazioni, si può ben vedere che l’intero libro è basato sul dualismo e sugli opposti, a partire dalla struttura dei capitoli che alternano la voce di Dorothea e quella di Ruth. Da una parte abbiamo Dorothea Truelove, bellezza canonica inglese con boccoli biondi e pelle di porcellana, la bontà d’animo verso i meno fortunati assieme alla forza di ribellarsi davanti a ciò che trova ingiusto come le nozze combinate e l’imposizione di gusti e religione da parte del padre, ricevimenti e giardini per appuntamenti galanti e convenzioni sociali. Dall’altra, invece, troviamo Ruth Butterham, dai crespi capelli mori e gli scuri occhi troppo distanziati tra loro, le sue mani rovinate dai calli a furia di cucire, l’assurda povertà in cui è cresciuta, le sue tragiche esperienze di vita che spaziano dal feroce bullismo delle ragazzine perbene e il suo ruolo fondamentale nell’aiutare la madre a partorire fino alla schiavitù nel retro di uno splendido atelier per signore, quindi alla prigione in cui è detenuta per omicidio.
Fondamentale è anche la riflessione linguistica riguardo ai nomi e ai colori. Dorothea Truelove, letteralmente dal greco dono di dio e amore vero, vive in un mondo fatto di pizzi, canarini canterini, impegni mondani, dove tutto è luminoso e bello, mentre Ruth Butterham, che dal nome mi ha subito ricordato Rut, la nomade e immigrata bisnonna del re di Israele Davide, con un cognome che più povero non si può (burro e prosciutto), vive con il lavoro manuale, il sangue, la cecità, la polvere e il buio che minaccia corpo e anima.
Eppure, le due hanno qualcosa in comune. Dorothea, malgrado non si renda del tutto conto dei suoi privilegi e dia al lettore un senso di tenerezza, ha una passione molto punk: quella della frenologia. Praticamente, è convinta che dalla forma del cranio si possa stabilire che tipo di persona si ha davanti e quale possa essere il suo futuro, come d’altro canto in Italia sostenne Cesare Lombroso. Ma se fosse possibile correggere certi istinti? E se in qualche modo l’ambiente e l’educazione avessero qualche potere di modificare protuberanze e fossette della nostra scatola cranica? Purcell, perfettamente calata nel ruolo, lascia che Dorothea affronti il mondo proprio con questa sua prospettiva pseudo-scientifica e noi lettori con lei. E quando incontra Ruth nelle sue attività benefiche nella prigione femminile, la povera sarta accusata di omicidio della padrona sembra essere la sfida che aspettava da tempo.
Ma anche Ruth è unica. Infatti, mentre il leitmotiv di Dorothea è la frenologia, quello di Ruth è la sartoria. Punti, tessuti e colori rivestono un’importanza fondamentale nella sua visione del mondo e il suo talento innato la porta a credersi addirittura maledetta, un’assassina involontaria e a piede libero. E se in qualche modo Dorothea avesse ragione?
Entrambe le giovani donne hanno perso la madre in circostanze drammatiche ed entrambe hanno approcciato il mondo esterno in modo originale per il proprio ceto sociale, altra dualità importante nel romanzo assieme alle altre già citate.
Se vi andasse di approfondire i temi affrontati da Laura Purcell, come suggerisce lei stessa nella postfazione, vi consiglio di dare uno sguardo a The History of Phrenology su cui si è documentata e al focus che il CICAP ha posto sull’argomento con letture consigliate. Obbligatorio, se non vi è mai capitato di farvi un salto a Torino, un tour virtuale nel Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso.
Che altro dire? Un gotico che si legge come un thriller, drammatico e spaventoso per le conseguenze morali e fisiche a cui porta. Un romanzo che, se non vi è ancora capitato di leggerlo, va recuperato quanto prima.
Se sapete cucire, state lontano da me, grazie.
Betta La Talpa
P.S. Potete trovare Il filo avvelenato su LaFeltrinelli e IBS.
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