Delle città non si parla mai abbastanza.
Ci sono città che sembrano nate per essere raccontate: Torino, Trieste, Roma, Lisbona, New York, Londra, piccoli paesini memorie di un luogo che il tempo, la globalizzazione e internet ci vogliono portar via.
Città di cui invece non si sa nulla e che non hanno mai potuto parlare attraverso le pagine di un libro che non sia le Pagine Bianche, se ancora esistono. Paesini dai nomi poco lirici, magari nati dall’agglomerarsi di case a ridosso della guerra.
I luoghi possono essere protagonisti e personaggi veri e propri, dalle case alle ambientazioni più ampie, possono dare delle sensazioni precise e ingoiare gli altri comprimari, possono essere molto esasperati o perfettamente naturali. In virtù della sua agorafobia, Shirley Jackson scrisse molto di case e castelli che hanno una propria identità, inventata da donne isteriche o malvagia per un oscuro passato; Hogwarts è diventato un rifugio accogliente e ricco di opportunità per chi vi entri, a prescindere dalle sue capacità e dalla propria linea di sangue; la Londra di Dickens ha le connotazioni precise dell’epoca vittoriana in piena seconda rivoluzione industriale, mentre quella di Dylan Dog ha la patina di una città senza volto e senza anima come possono essere i passanti di cui non vediamo nemmeno il volto.
Alberto Rudellat vede la città in questo modo, avvolta nella nebbia che è soprattutto quella che protegge l’individuo dagli altri, ma copre anche la visione d’insieme e non permette di notare le cose migliori, un tulipano nel cemento o una bella ragazza per la sua originalità. Il titolo Canti della città sembra rimandare a racconti monotematici e a inni sacri, una scelta ben ponderata che arricchisce una raccolta di racconti dedicati a un’anonima città e ai suoi innumerevoli, invisibili abitanti.
Con uno stile classico, quasi manierista nel suo rifarsi agli autori delle citazioni che aprono ogni racconto (Poe e Nietzsche, ma anche Pasolini e Bowie fra gli altri), Rudellat mostra un non-luogo che il lockdown non avrebbe dovuto farci rimpiangere, ma che ahimè è tornato alla sua vecchia, insalubre routine. Violenza non così nascosta ma che volutamente non guardiamo per paura che tocchi il nostro personalissimo privato, indifferenza e diffidenza verso gli altri, verso lo sconosciuto, verso chi è straniero non tanto perché abbia un’altra origine rispetto a noi, ma proprio perché è altro da noi quindi potrebbe recarci danno, anche solamente mostrandoci una realtà diversa dalla nostra così duramente conquistata. Orrori e incubi tratti non dal folklore, ma dalle nostre menti perverse.
Non si tratta di una lettura leggerissima per lo stile e le tematiche, ma la costruzione in racconti lo rende facile da masticare e digerire in pochi giorni.
Ater ci ha abituati a libri di un certo livello e nemmeno questo volta si tradisce con un piccolo gioiello grezzo di orrenda umanità.
Un caro saluto,
Betta La Talpa
P.S. Potere trovare il libro su LaFeltrinelli e IBS.
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